di Davide PASSONI
Chi va per mare, a vela, lo sa: timonare un Sangermani è un’altra cosa. Altra da che? Da tutto. Perché essere al timone di uno scafo uscito dai cantieri di Lavagna vuol dire portare un autentico pezzo di storia della nautica e dell’artigianalità italiana; vuol dire manovrare una barca anche di dimensioni importanti che si lascia condurre con facilità e scioltezza, come se si stesse portando un gozzo; perché gli scafi Sangermani sono unici, come la storia di famiglia che recano con sè e che si respira immediatamente entrando negli uffici di Cesare Sangermani, patron del cantiere. Ospitale e pratico come gli uomini di mare e di fatica sanno essere, ci ha aperto le porte del suo regno e… tanti cassetti dei ricordi.
Ci racconti un po’ la storia di Sangermani.
È una storia che parte dalla fine dell’800, quando mio nonno iniziò come hobby a costruire barche; probabilmente non pensava di essere il fondatore di un cantiere che sarebbe divenuto importante e conosciuto in tutto il mondo. A lui piaceva costruire barche, le realizzava per qualche pescatore che voleva un gozzetto per uscire a calare le reti o per un amico che voleva la lancetta per andare a fare il bagno, tanto che fino agli Anni ’20 il nostro rimase un cantiere amatoriale, non professionale. Quando mio padre tornò dalla prima guerra mondiale mise mano al primo vero cantiere, per quanto piccolo, a Mulinetti, vicino a Recco, anche se la vera produzione di barche da diporto iniziò in un secondo momento, a Rapallo, con il secondo spazio dove fu trasferito il cantiere fino agli inizi della seconda guerra mondiale. Poi, in piena epoca fascista, il cantiere si dovette spostare da Rapallo e mio padre e mio zio presero in gestione un cantiere a Riva Trigoso, dove rimasero fino alla fine della guerra. Nel ’46 trovarono l’attuale area, che allora era abitativa, comprarono i vari appezzamenti al di fuori del terreno demaniale – che danno il vero valore al cantiere dal punto di vista immobiliare – fino ad arrivare agli attuali 6mila metri quadri. Quindi i cantieri Sangermani sono qui dal 1946 e piano piano si crearono una nicchia di mercato che vedeva alcuni dei nomi più importanti dell’economia dell’epoca: erano gli anni del boom economico e c’erano facili e buoni guadagni. In questo senso devo ringraziare mio padre e mio zio che sono stati capaci di risparmiare mettendomi in grado di rilevare la parte dell’attività che era di mio cugino, una volta arrivato il mio momento. Dal 1986 sono rimasto da solo in cantiere, affiancato dai miei figli e da mia moglie, che per 15-20 anni ne ha curato la parte amministrativa.
Una vera storia di famiglia…
Sì, con una piccola parentesi in cui cedetti il 30% della società a un nostro amico che aveva insistito tanto per entrarvi, ma il cui apporto è stato talmente scarso a livello di immagine e di clientela, che dopo una decina d’anni mi sono ripreso le quote.
Come nasce oggi una Sangermani? Da un’idea, da una commessa… come?
Ci sono due tipi di clienti: quello che viene da noi e non sa niente, e quello che viene e ha delle idee in testa che crede chiare ma che tali non sono. Il primo dice: “Vorrei una barca per uscire in mare nel weekend con la famiglia, gli amici ecc…“. Ecco allora che si prendono un foglio e una matita e si schizza banalmente una barca: cabina a prua o a poppa? Cucina a misura di moglie o di cuoco con i guanti bianchi? E via così. Una sorta di confessione che l’armatore ci fa per farci capire che cosa vuole. Inutile dire che questo è il tipo di cliente che a me piace di più, perché mi dà più stimolo e, siccome mi reputo un creativo, mi piace la sfida per entrare nella mente dell’armatore e vedere se sono stato abbastanza bravo da accontentarlo.
Il secondo cliente, invece?
È quello che arriva già con i disegni in mano e ci dice: “Questo è un disegno di Bruce Farr, il mio consulente è tizio o caio e ti rapporterai con lui: allora, quanto costa la barca?“. È un rapporto che mi piace di meno, dove però, magari, guadagno di più… Un impegno totale ed emotivo contro un rapporto freddo e professionale. Ricordo che anni fa un cliente mi chiese “Quanto costa la barca?”; “Sette miliardi“, gli risposi, aggiungendo: “Vuole mettere però il piacere di venire al sabato e alla domenica a vedere la barca che nasce e cresce?“. “No no, io non verrò mai: firmo il contratto e vengo a ritirare la barca finita. E se me la consegna in ritardo di un giorno non la ritiro“, fu la risposta. Al che rifiutai la commessa e lo congedai: “Grazie, ma lei non è un mio cliente“. Persi sette miliardi, forse sbagliai, ma a me un cliente così non piace.
Progetta ancora lei le barche?
Tornando al cliente del primo tipo, una volta “confessato” il secondo passaggio è: vuole la firma di un progettista o si accontenta di quella del cantiere? Se si accontenta della mia firma realizziamo noi la barca “in famiglia”, altrimenti chiamo io un progettista in base alle richieste del cliente. Ma a noi piace disegnare le barche, perché, come dico io, le barche hanno sempre due genitori: la mamma è il cantiere, che la tiene in gestazione alcuni mesi e poi la partorisce, il papà è il progettista, che se c’è è meglio, ma non è sempre così indispensabile.
Avete barche in costruzione al momento?
Per ora facciamo solo refitting e rimessaggio. Stiamo iniziando la seconda serie di un piccolo motoscafo di 10 metri, 9,99 per la precisione, che ci siamo “inventati” 4 o 5 anni fa; ha una linea un po’ retrò, sulla base di un disegno fatto da mio padre alla fine degli Anni ’30 – e modificato da me – di un motoscafo per il podestà di Rapallo. Ho trovato il disegno di questo motoscafetto di quasi 7 metri, l’ho modificato adattandolo alle esigenze più moderne, portandolo verso una linea degli Anni ’50, e l’abbiamo costruito tramite un’organizzazione che poi lo avrebbe commercializzato. Della prima serie ne abbiamo fatti 5 o 6 e ce ne sono due in Costa Azzurra, uno in Corsica, uno in Sardegna, uno in Florida.
Dove si trova la barca più lontana che ha rinvenuto o venduto?
Il cliente più distante che ha trattato direttamente con noi era negli Usa; abbiamo poi delle barche in Australia, ma come secondi proprietari. Ricordo poi che durante la Coppa America di Luna Rossa contro New Zealand, nelle riprese delle regate a Auckland furono inquadrate due delle nostre barche: una era quella di Patrizio Bertelli, l’Ulisse, uno Stephens di 20 metri costruito nel ’72-’73, l’altra era il Seljm, che si vide veleggiare nella baia, una goletta di 30 metri degli Anni ’80.
Son soddisfazioni…
Grande soddisfazione. Sull’Ulisse salirono anche Mauro Pellaschier e Cino Ricci che, insieme all’armatore, disputarono una piccola regata in una giornata di riposo della Coppa America, vincendola; ricordo che Pellaschier, intervistato in televisione, ci fece anche una sviolinata parlando di quanto era bello timonare un Sangermani…
Me lo lasci chiedere: perché comprarsi una barca in legno nel 2011? La manutenzione, la delicatezza… Meglio la vetroresina?
Vede, il motoscafo di 9,99 metri sarà in vetroresina; l’occhio esperto lo capirà, ma il profano potrà anche pensare che sia in legno perché ci sono degli accorgimenti tecnici che non tradiscono l’uso della vetroresina. Chiaramente su una barca non di serie propongo sempre il legno, un legno degli anni Duemila, non un legno all’antica, perché il legno all’antica è insostenibile oggi. Credo che se rinascessero i vecchi maestri d’ascia di fine ’800 e dei primi del ’900 utilizzerebbero le teconologie di oggi: è da stupidi restare ancorati a tecnologie antiche e, soprattutto, non c’è più la possibilità di reperire il materiale che si aveva una volta. Se dovessi fasciare una barca di mogano come si usava negli Anni ’60 non troverei dei tavoloni sufficientemente lunghi, non dico per fare la tavola intera di una barca di 20 metri – perché non si faceva neanche una volta -, ma nemmeno i tavoloni di 10, 12, 13 metri esistono più, non vengono più tagliati all’origine. Sempre utilizzando il legno, ci si può invece servire di tecnologie moderne che consentono di sfruttare materiali più leggeri e pratici con cui costruire un prodotto che tiene testa a quelli di una volta e che è anche migliore di loro, sia per longevità che per caratteristiche meccaniche e di struttura.
Qual è, che vi risulti, la vostra barca più longeva in circolazione?
Ne ho trovata una del ’37, abbandonata, un po’ derelitta ma ancora recuperabilissima, anche se sul recupero abbiamo dei problemi di proprietà che bloccano un po’ l’iter. Questa barca è rimasta ferma 20 anni su un piazzale con l’opera viva ricoperta di vetroresina: una disgrazia se fosse stata in mare, ma essendo in terra ha aiutato a tenere lo scafo abbastanza integro. Avevamo anche un potenziale acquirente.
E come è fatta?
È lunga oltre 17 metri, una bella misura per un periodo in cui le barche grandi erano di 15 metri; poi, con i decenni, le misure sono lievitate fino a quelle che vediamo oggi che, in un certo senso, non si possono più considerare delle barche a vela. Certo, un bel Perini è sempre un bel Perini, però che stazze…
I suoi figli proseguiranno l’attività? Come si immagina il cantiere da qui a qualche ann0, anche senza bisogno della sfera di cristallo?
Intanto bisogna immaginarsi una fine di questo momento di crisi generale. Perché finirà, deve finire. Poi pensiamo sì al futuro, ma pensiamo a viverlo come facevamo 50 anni fa, pensiamo a utilizzare la sapienza artigianale. Convinciamoci del fatto che l’Italia non è più un Paese industriale, non lo è mai stato veramente. In questo senso, credo che torneremo a fare gli artigiani del lusso: ci devono essere 10 persone in tutto il mondo che vogliono un prodotto diverso, anche da quello che trovano nei migliori cantierei del mondo. Meglio avere un prodotto da signori piuttosto che un prodotto da ricchi e siccome i signori ci saranno sempre, alla fine magari torneremo a fare gli artigiani proprio per loro. Ovviamente il tutto proporzionato ai tempi nuovi, perché non bisogna trascurare la tecnologia solo per dire “Io lo faccio all’antica”. Un po’ quello che dicevo prima per il legno di oggi e quello di una volta… Comunque sì, direi che i miei figli sono abbastanza allineati, sono forse io quello più ancorato alle tradizioni.
C’è un cliente che ricorda particolarmente per le sue richieste strane, magari difficili da soddisfare?
Intanto noi soddisfiamo tutte le richieste, a parte quelle che non fanno stare a galla una barca. Diciamo che quello che mi ha dato tante volte dei problemi è stat realizzare la barca sui gusti dell’armatore accompagnato dall’amante e poi doversela vedere con la moglie che regolarmente faceva cambiare tutto. Poi l’armatore faceva la commedia con la consorte e non ci pagava la modifica…
E un aneddoto particolare?
Ce n’è uno legato a una nostra barca di proprietà della Marina Militare, la Stella Polare. La Marina volle delle garanzie pesanti su quella barca, voleva uno scafo per girare il mondo ma anche per fare regate tra navi scuola, per cui molto performante, tanto che credo che in fase di progettazione fossero state fatte anche prove in vasca. Comunque, a fine Anni ’60 primi Anni ’70, la Stella Polare era in navigazione nella Manica insieme alla barca dell’allora primo ministro britannico Edward Heath, la Morning Cloud, uno Stephens come la Stella Polare. A un certo punto i due scafi presero una sventolata piuttosto pesante che fece affondare la Morning Cloud, mentre la Stella Polare se la cavò senza troppi patemi. Il comandante e l’equipaggio della barca della Marina videro tutta la dinamica del naufragio, con la barca inglese finita sugli scogli, per fortuna senza vittime. Ebbene, ricordo la telefonata fatta in cantiere dal comandante della Stella Polare, un napoletano, che raccontò l’avventura a mio zio e gli disse: “Invece che portare un cero a San Gennaro porteremo una bella cassa di vino a Sangermani, perché ci avete salvato la vita“. Era una barca davvero tosta, non a caso a quell’epoca lo studio Sparkman & Stephens disegnava le barche che vincevano tutto, a partire dalla Coppa America.