di Davide PASSONI
Ve lo sarete sentiti ripetere da sempre, fin da quando avete acquistato il primo, mitico Jelly Fish nel 1985: “Il vetro di uno Swatch non si può sostituire. Se lo rompi, o te lo tieni così, o butti l’orologio”. Falso. La frase andrebbe invece formulata in questo modo: “Non troverai nessuno che ti voglia sostituire il vetro rotto di uno Swatch”. Quasi vero.
L’antefatto. Estate 2010, sera, piazza Duomo, Milano. Passeggio sotto ai portici e tutto a un tratto “toc”, un colpo al polso sinistro e un rumore sordo: polso contro polso, orologio contro orologio con un passante che cammina nella direzione opposta. Il mio Swatch Irony, un Toxin del 1999 (il crono con quel bel quadrante blu elettrico) ha la peggio: crepa da brivido che attraversa il vetro in verticale quasi da parte a parte. Subito quelle parole in mente: “Il vetro di uno Swatch non si può sostituire. Se lo rompi, o te lo tieni così, o butti l’orologio”. Non mi rassegno, no. È vero, si tratta di uno Swatch, mica di un Patek Philippe, non è di certo il più prezioso dei miei 18 orologi, ma ha un suo valore affettivo e portarlo con quello sfregio proprio no, devo trovare una soluzione. O meglio, devo trovare un orologiaio che sia disposto a fare quel lavoro sporco. Sì, perché il vetro di uno Swatch si può cambiare eccome, bastano un semplice arnese da orologiaio chiamato “ragno” e la perizia e la volontà di mettercisi. Vuoi che in una città come Milano non si trovi un artigiano in grado di farlo, mi dico?
E invece… Mesi passati a bussare a una dozzina e più di laboratori – di quelli da orologiaio con i controfiocchi, dieci generazioni di artisti della micromeccanica – per sentirsi dare la stessa risposta, o quasi: “Io quel lavoro lì non lo faccio”, “Io quegli orologi lì non li riparo”, “Io non cambio quel vetro perché poi non garantisco l’impermeabilità”. Ai primi rispondevo “Ha perso un cliente”, ai secondi “Ma non sono mica spazzatura???”, ai terzi “Pazienza, per me non è un problema”, ma restavano della loro idea. Dei negozi Swatch non parliamo: se chiedi se si può fare l’operazione, le commesse ti guardano con tanto d’occhi, nemmeno fossi entrato nudo nella boutique, o, nella migliore delle ipotesi, ironizzano sulla richiesta. “Anzi, già che è qui ne approfitti: butti quello rotto e ne compri uno nuovo”. E intanto l’Irony rimaneva nella sua scatola ferito e tanto triste da lasciarsi esaurire la batteria dopo settimane di inutilizzo.
Finché un giorno l’occhio cade su negozio-laboratorio qualunque, uno di quelli con centinaia di orologiacci cinesi e giapponesi da poco prezzo in vetrina e con un sacco di scritte sulla porta, tra cui una piuttosto presuntuosa: “Sostituzione di ogni tipo di vetro”. Vuoi vedere che…? Tentar non nuoce. Torno il giorno dopo, entro, mostro al corpulento signore sudamericano dietro al bancone lo Swatch violato: “Sì señor, no hay problema. Ne ho cambiati altri così. Io ci provo, torni domani”. E l’impermeabilità? “No me diga che fa la doccia con l’orologio al polso?” Sapienza Inca…
Esco dal laboratorio e ancora non credo alle mie orecchie, ma quando torno il giorno dopo credo ai miei occhi, eccome: cristallo nuovo, perfetto, praticamente identico all’originale. E, impietosito, il signore ha pure cambiato la batteria e allineato i contatori; il tutto per pochi euro. Poche pretese, zero puzza sotto al naso, tanta buona volontà e un orientamento al cliente (OGNI cliente, non solo quello affezionato o che paga bene) che certe botteghe della Vecchia Milano nemmeno si sognano.
Tutto questo, signori, è lusso.