La Sicilia delle ricamatrici di pizzo sedute al sole davanti alla porta nelle calde giornate d’estate, quella del profumo delle melanzane fritte per i vicoli e dell’odore di zagara lungo la strada che da Catania porta a Taormina. La Sicilia degli abiti popolari, come quelli indossati dalle donne dei Malavoglia, quella da cui si parte ma a cui si vuole sempre tornare, quella dei paesini con le porte chiuse a vanidduzza (semiaperta N.d.r) per fare circolare l’aria nelle case arse dal sole. E’ questa la Sicilia di Marella Ferrera, cantastorie moderna e appassionata che attraverso le sue collezioni meravigliose racconta di una Trinacria madre, che rivive nei suoi abiti incrostati di pizzo lavorato a mano. Una Sicilia da cui si parte, ma a cui sempre si torna.
Qual è il suo rapporto con la Sicilia?
È una relazione intima e molto materna, come quella che si può avere con il ventre di madre terra. Amo moltissimo l’energia di questa isola, il suo passato, le contaminazioni e le stratificazioni culturali. È stata una terra straordinaria, di incontri e di scontri. È un luogo d’approdo e nel contempo un luogo di partenza. Io vedo nella storia passata della mia regione un grandissimo futuro. Forse, è banale dirlo, ma credo che la Sicilia sia per me il centro del mondo. Se solo si potesse scrollare di dosso un po’ di falsa umanità… e soprattutto liberarsi di quegli ultimi 50 ma anche 60 anni di storia volta a distruggere la bellezza naturale con opere architettoniche inquietanti, realizzate nella seconda metà del ‘900.
Di quella bellezza naturale di cui parla è rimasta traccia?
La si trova ancora passando per paesini dove il progresso non è arrivato. Sto parlando di quei posti che ci arroghiamo il diritto di definire retrogradi. Lì, in realtà, è rimasto tutto intatto. Per me è quello il futuro. Se analizziamo con lucidità quello che sta accadendo ci accorgiamo che questo progresso tanto osannato è stato, in realtà, un grandissimo regresso. Quindi, a mio avviso tornare indietro significa andare avanti: il paese dove fanno la raccolta di rifiuti con l’asino è il futuro, così come le piccole isole, per esempio Alicudi, dove non si può far altro che camminare a piedi, dove non è ancora arrivata l’elettricità. Io sono per l’aspetto religioso di quest’isola. Ci sono dei luoghi in cui c’è ancora la verità di questa terra e sono proprio quelli che io amo. E’ questa la Sicilia che mi piace.
E’ questa, dunque, la Sicilia da cui prende ispirazione per le sue collezioni?
Questa Sicilia primordiale è la mia unica, vera e profonda ispirazione, quella da cui io traggo la linfa per creare, perché infondo il mio lavoro significa espressione, linguaggio. Per me la moda non esiste come la si intende nel fashion system. Io ho avuto e ho una mia particolare visione, che poi è stata fortunatamente anche condivisa in questi 20 anni. All’inizio, sembrava una cosa folle parlare di Sicilia, poi mi sono resa conto che era un linguaggio, che la Sicilia si stava servendo di me per raccontare. E, in effetti, l’ho usata come parola, come verbo, come espressione: i colori li prendi dalle conchiglie, dal fondo del male, dalla natura lussuriosa dell’isola. Il manichino è stata la mia tela sulla quale ho composto dei racconti, espresso delle emozioni.
Sono passati già vent’anni…
Tirando le somme di questo primo ventennio, devo dire che il bilancio è più che positivo. Non mi sento ovviamente arrivata, ma credo di aver fatto tanto. Sin dalla prima sfilata tutti mi dicevano che sarebbe finita l’ispirazione, ma io li ho smentiti e sento di non avere detto ancora tutto della Sicilia. Se questa terra così fantastica mi ha dato tanto, io sono in obbligo morale nei suoi confronti, devo darle il giusto riconoscimento, lasciando che lei parli attraverso il mio lavoro. Rimanendo qui a Catania.
Quella di rimanere a Catania, a fare moda in Sicilia, è una scelta volta alla valorizzazione del territorio?
Io ho un percorso di vita un po’ diverso. In genere si va via dalla Sicilia perché si pensa che al Nord, con il famoso sogno di Milano, tutto si avveri magicamente. Sono partita da Catania nel ‘78, ho frequentato a Roma l’Accademia di Costume e Moda e poi mi sono spostata a Milano alla fine degli anni 70, anni pieni di fervore creativo in cui Dolce e Gabbana iniziavano il loro percorso. Cominciavo anche io in quegli anni e mi sembrava che Milano fosse la scelta giusta da fare, ma poi mi sono accorta che lì c’è poco da raccontare, che, rimanendo troppo lontana dalla Sicilia, la mia creatività si era trasformata: facevo cose belle ma non le sentivo dentro. Cosa che per me era impensabile, io ho con la moda un rapporto intimo che faccio fatica anche a spiegare. Così ho deciso di rientrare. Per tutti questa mossa per tutti una specie di lutto, una sconfitta, una scelta non condivisa nemmeno dalla mia famiglia. Nel ’93, poi, ho debuttato con la mia prima collezione d’Alta Moda dedicata alla Sicilia, un sogno vissuto nei lunghi anni di distacco dalla terra. La verità è che quando hai qualcosa non ti manca. Per questo dico ai siciliani di fare l’esperienza del distacco, per capire davvero quello si ha. Se non lo vivi, se non ti manca l’odore delle melanzane fritte, quello di zagara lungo la Catania-Taormina, non potrai mai sapere cos’è la ricchezza della tua terra.
Non è, dunque, tornata perché voleva valorizzare il territorio ma perché fondamentalmente le mancava la fonte di ispirazione primaria per le sue creazioni?
Sentivo l’esigenza di raccontare delle cose e dovevo farlo dalla Sicilia, punto di partenza per narrare le mie idee. A Milano sarei stata una dei mille, una fra i cento nel calendario del pret-à-porter. Poi ho fatto i miei anni di Alta moda, di pret-à-porter a Milano, insomma tutto il percorso che normalmente fa uno stilista. Io non mi rifugio in Sicilia, non è il mio buen retiro. La Sicilia è il posto in cui spendo di più la mia vita, è qui il mio quotidiano fatto di lavoro, vita e famiglia. Stando qui è tutto diverso: tutto ha un altro peso, un’altra dimensione, c’è un’altra umanità.
continua…
Pinella PETRONIO