Per spiegare cosa sta succedendo nel food Made in Italy cominciamo con alcuni dati: il 33% dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati all’estero con marchio made in Italy contengono materie prime straniere. 4 Mil/tons di frumento tenero sono importate, 1/3 della pasta e’ ottenuta con grano prodotto all’estero, 2 Mil/tons di grano duro arrivano dall’estero (circa il 30% del fabbisogno complessivo per la produzione della pasta), 50Mld/€ del fatturato con il cibo made in Italy e’ realizzato con prodotti stranieri.
Ma allora, per esempio, è davvero italiana la pasta italiana?
Una recente inchiesta del Corpo Forestale dello Stato, partendo dalla Puglia, ha messo in discussione questo paradigma fondamentale. Sempre più frequentemente la pasta prodotta in Italia viene realizzata con grano proveniente da Canada ed Ucraina senza che sulle etichette appaia traccia alcuna dell’informazione.
In linea di principio i nostri “pastai” doc non contestano questo dato, piuttosto evidenziano come l’italianità sia garantita dalle specifiche lavorazioni, dalla ricerca, dalla storia stessa…
Esistono comunque decreti europei, emanati tra il 2003 ed il 2011, che obbligano a riproporre in etichetta tutta la filiera.
Eppure il tricolore e la definizione oggetto di contesa “made in italy” sono da sempre considerati elementi di enfatizzazione dell’origine italiana del prodotto finito. E il dibattito sulle etichette non si esaurisce qui bensi’ si estende ai cosidetti DOP (prodotti di origine protetta) i cui controlli non riescono a tutelare le singole specificità.
Ancora qualche dato: 2 prosciutti su 3 venduti come italiani sono provenienti da maiali allevati all’estero, 3 cartoni su 4 di latte a lunga conservazione sono stranieri senza etichetta, il 50% delle mozzarelle sono prodotte con latte straniero, la crescita dei prodotti stranieri in Italia negli ultimi otto mesi del 2013 è stata del 22%: 55% il pomodoro fresco, 49% il riso, il 45% i cereali, il 33% frutta e verdura, il 26% il latte, il 16% la carne di maiale, etc.
Forse sarà per questo motivo che circa il 70% delle famiglie italiane si dicono preoccupate della qualità dei prodotti consumati, se è vero che 7 Mil di famiglie hanno acquistato almeno una volta nell’ultimo anno un prodotto confezionato che si è rivelato avariato.
La distanza tra il nostro e gli altri Paesi alla base della preoccupazione nell’acquisto di cibo si sta ampliando nel senso più concreto perche’ si preferisce sempre più spesso acquistare direttamente dal produttore, dal negozio di quartiere o al banco di frutta e verdura del proprio mercato. E’ anche una distanza culturale: ci si fida sempre più del marchio DOP e IGP e si ha paura del cibo etnico.
Ancora più grande è la diffidenza verso il prodotto confezionato a lunga conservazione di produzione industriale e magari proveniente dall’estero.
Spesso il fattore culturale è quello fondamentale nel senso che esiste una diffusa ignoranza nel mondo sul cibo, su come conservarlo, su come cucinarlo, su quale cibo è di stagione e quale no, arance, pomodori, zucchini, etc…
Gli elementi prossimità ed educazione, possono aiutare moltissimo: chi vende ha una faccia più riconoscibile, il territorio di origine, la provenienza, sono il vero valore aggiunto.
La ricerca di un cibo “pulito, sicuro, buono”, identificabile o come sostiene Slow Food, “buono, pulito, giusto” ci porta alle stesse conclusioni: accorciamo la distanza tra noi e ciò che mangiamo e daremo più sicurezza alla nostra vita.
Former Partner Odgers Berndtson