E poi un giorno ti svegli e pensi: tutti non fanno che parlare di Made in Italy. Tutti si barricano dietro l’etichetta “italianità”, fatto nel Belpaese. E’ un po’ come “spread”, “BTP”: tutti lo usano, pochi ne capiscono il senso. Un termine abusato. Non scopriamo di certo l’acqua calda se diciamo che anche in parecchi marchi del lusso tricolore, tutto questo Made in Italy non corrisponde sempre al cento per cento. Quindi, come si fa a capire il senso di questa espressione? Forse, una risposta più che soddisfacente ce la può dare Nino Cerruti, uno di quei giganti italiani che il Made in Italy l’ha letteralmente tessuto negli anni e con l’esperienza di un brand ormai conosciuto in tutto il mondo.
Il suo è stato uno dei primi brand italiani a puntare sull’estero e sull’export. Che cosa significa essere ancora oggi portabandiera di made in Italy?
Il made in Italy è nato per un dato di fatto. Nasce da una maniera diversa che gli italiani avevano ed hanno ancora abbastanza di prendere la vita. Diciamo che sono tutti abbastanza epicurei. Gli italiani hanno questo modo di godersi la vita, se è possibile. Poi, negli anni e per primi, hanno messo a punto un sistema in cui moda, design, buon cibo, arte… tutto si confonde insieme. Questo minestrone è il made in Italy italiano nei costumi e nella maniera di vivere, che si era anche espresso nei prodotti. Non era mai stato necessario farne un’etichetta.
Cos’è cambiato?
Direi che oggi diventa una definizione necessaria per difendere produzioni più anonime, perché se avessero un buon nome dietro non ne avrebbero bisogno, e anche perché il consumo mondiale è cambiato, la ricerca di cose diverse ha preso altre proporzioni. Il made in Italy, come termine, ci sta ma bisogna che dietro al nome ci sia un reale modo di vivere made in Italy, altrimenti diventa un grosso falso. Per esempio, è fondamentale che si riesca a dare un’immagine italiana al nostro informale, come abbigliamento: il rischio è quello di farlo diventare di altri Paesi, di altre manie, di altri modi di vivere. A quel punto cominciano gli appiattimenti e la perdita di identità.
Made in Italy: griffe e storie di famiglia. I suoi ricordi e oggi?
All’inizio, anni Cinquanta e ancora di più anni Sessanta c’era un enorme vuoto da riempire. Nella gente c’era entusiasmo, curiosità. L’abbigliamento, sulla grande massa, era un giocattolo nuovo. Era un’atmosfera di continua festa. Io ricordo le presentazioni di moda, alla Casina Valadier, per l’uomo. Ero una Roma degli anni Sessanta. Una grande confusione, degna di un concerto, di fenomeni di massa mastodontici. Pensi la proporzione che ha preso il fenomeno moda.
Oggi si stupiscono che Facebook abbia più di 1 miliardo di addetti. A questi io rispondo: ma ci rendiamo conto, e non se ne parla mai, che la moda ne ha almeno più di 2 miliardi. Che è il più grosso fenomeno di interesse e di attenzione mai verificatosi al mondo. Nessuna religione è riuscita in tanto. Neanche il pallone. La moda sì.
E’ questa consapevolezza, è questo entusiasmo a mancare oggi?
Sì. Quando hai tanto di una cosa finisce che dai tutto per scontato. Poi sono intervenuti talmente tanti fenomeni in contrapposizione l’uno con l’altro… Oggi ci troviamo davanti ad entusiasmo e insieme a stanchezza. Abbiamo vissuto troppi anni in cui abbiamo fatto letteralmente indigestione di moda, tutti i giorni.
Sarà per questo motivo che ha scelto di tornare – “modaiolo” parlando – sulla vetta dell’Everest insieme a Nigel Cabourn?
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