Da quando le donne facevano il bagno al mare vestite di tutto punto con abiti al cui orlo venivano attaccati dei piccoli pesi perché la gonna non si sollevasse in acqua di tempo ne è passato. Un po’ perché era sconveniente mostrare certe nudità, un po’ perché l’abbronzatura veniva considerata volgare, fior fior di giovani fanciulle non osavano mettere in mostra i loro corpi, nemmeno con 50 gradi all’ombra. Oggi, nell’epoca dei social network e dei selfie, non solo le donne osano bikini microscopici, topless e tanga, ma ci tengono che i loro corpicini fasciati da costumi colorati vengano visti da quante più persone possibili. Proprio per questo divulgano e condividono scatti, ammiccanti e meno ammiccanti, che le ritraggono sotto il sole o sedute sulla battigia.
La vanità delle donne 2.0 è stata anche la fortuna di molte aziende di beachwear che dopo anni di testimonial, blasonate e meno blasonate, dopo fior fior di quattrini spesi in pubblicità, hanno capito che, forse il miglior modo per arrivare alla gente sono appunto i social network. Che si tratti di celebrities o che si tratti di ragazze della porta accanto, il fatto che un costume venga indossato e “spammato” su Facebook, Twitter, Instagram e chi più ne ha più ne metta è una sicura fonte di pubblicità.
E così se il colosso del beachwear italiano Calzedonia (con oltre 650 negozi in Italia e circa 1600 nel mondo e ricavi superiori a 1,5 miliardi) un tempo utilizzava testimonial del calibro di Gisele Bundchen, oggi ha un po’ ridotto il tiro, senza rinunciare ad una testimonial top come le modelle Emily DiDonato e Alejandra Alonso, puntando su nuove forme di comunicazione e facendo leva sulla massiccia pubblicità che arriva dai sociale network. Da questo punto di vista, il 2013 è stato per l’azienda molto importante, perché per la prima volta ha portato le sue creazioni in passerella, al cospetto di ospiti in parterre del calibro di Sarah Jessica Parker. A dire il vero, Calzedonia non è stato il primo brand a fare sfilare costumi da bagno (lo hanno fatto già, e lo fanno ancora, Parah, Miss Bikini, Pin up e Yamamay), ma è stato il primo a mettere in scena una sfilata show che traeva ampia ispirazione da quella, spettacolare, di Victoria’s Secret.
Tra i primi a rendersi conto del potenziale del web e della forza della condivisione è stato il marchio Yamamay che due anni fa aveva scelto la blogger Chiara Ferragni per la creazione di una mini capsule collection di intimo e beachwear, di cui è stata anche testimonial. La collaborazione destò immediatamente un mare di polemiche e critiche, tant’è vero che la pagina Facebook del brand era stata presa d’assalto da follower che non si limitavano soltanto ad esprimere un’opinione, ma non esitavano ad insultare il marchio e la blogger.
La stessa pioggia di critiche (ma forse anche peggio, visto che se ne era parlato anche nei Tg nazionali) era piovuta su Parah che aSeptemberdel 2012 aveva scelto di fare sfilare in passerella Nicole Minetti, proprio quando l’ex consigliera regionale della Lombardia si trovava nell’occhio del ciclone, per via del Berlusconi gate. Le donne di tutta Italia, sdegnate, famose e non, si sollevarono in una sommossa popolare, indignate che il nome di una donna al centro di uno scandalo sessuale, potesse essere associato ad un marchio, minacciando di non acquistare più nessun prodotto del brand. Il risultato fu che della sfilata si parlò eccome (quello era in realtà l’intento del marchio) e che i fatturati di Parah non calarono affatto. Della serie bene o male purché ne se parli.
Pinella PETRONIO