Ombrelloni, sdraio, occhiali da sole e bikini coloratissimi, un allegro caleidoscopio che sa di leggerezza e ripaga dalla pesantezza del lungo inverno. In estate le spiagge si riempiono di donne dalla pelle abbronzata che mettono in evidenza fisici tonici, scolpiti da mesi di dura palestra, coperte soltanto da minuscoli lembi di licra e laccetti. Tanto piccoli da mettere donne di ogni razza ed età, già a partire dal mese di april quando cominciamo a respirare aria di primavera, in uno stato d’ansia febbrile per la fantomatica prova costume. Eh già, perché se un tempo, la paura più grande di ogni donna era quella di non riuscire a trovare un buon partito con cui accasarsi, oggi, il terrore vero si chiama bikini.
Più che gli occhi degli uomini, le donne temono lo sguardo impietoso delle altre donne, concentratissime a scovare un grammo di cellulite e una ciccetta strabordante dal laccetto che strizza sui fianchi. La prova bikini diventa l’incubo ricorrente: la notte quando sogniamo di trovarci su una spiaggia con perfette Pamele Anderson in rossi costumini sgambati e il giorno quando ci cibiamo di sedano e carote, beviamo litri di acqua per depurarci e ci avvolgiamo in metri di domopack, dopo esserci cosparse di fanghi di alga guam, per perdere un paio di cm sul giro vita. Ma non è che si stava meglio quando si stava peggio? Le nostre nonne non avevano certo paura della prova costume, anche perché, loro, il costume non potevano mica metterselo. Difficilmente andavano al mare, e anche quando potevano permettersi di farlo, quasi nessuna osava azzardare di scoprire le braccia, figurarsi le gambe e la pancia.
Nonostante la moda del costume da bagno cominciò a diffondersi nel primo dopo guerra (anche se già i costumi avevano iniziato a ridursi dopo il 1907 a seguito dell’arresto della nuotatrice australiana Annette Kellerman rea di essersi esibita con un costume che lasciava le braccia scoperte), era davvero difficile vedere nella puritana Italia donne che indossassero il costume. E così mentre il resto del mondo negli anni ’50 riduceva sempre di più le dimensioni del proprio costume, scoprendo braccia, gambe e pure pancia, e cominciava ad indossare il bikini (chiamato così dal nome dell’atollo di Bikini, sede di esperimenti nucleare), e negli anni ’60 osava addirittura il topless, le nostre nonne, tranne qualche rara eccezione, vedevano come una conquista potere scoprire le gambe.
Ma in Italia, si sa, a causa del Vaticano, le rivoluzioni sono lunghe e lente, e per vedere spiagge affollate di bikini, dobbiamo aspettare la seconda metà degli anni ’70 se non addirittura gli anni ’80, quando nel mondo il costume da bagno subiva un’ulteriore evoluzione, con l’introduzione del tanga.
Certo che a pensarci bene, la situazione è paradossale. È paradossale perché a dispetto della lentezza con cui la rivoluzione del bikini ha colpito la nostra nazione, le aziende italiane produttrici di beachwear sono tra le più forti nel mondo e costituiscono un comparto significativo della nostra economia. Da uno studio condotto da Pambianco nel 2012, in particolare, risulta evidente lo strapotere del Gruppo Calzedonia che con 1,295 miliardi di euro nel 2011, ha una dimensione doppia rispetto a Golden Lady, secondo in classifica con 618 miliardi di euro. Al terzo posto si colloca Inticom Yamamay con 149 milioni e un aumento del fatturato del 9%.