L’idea di cibo si collega in maniera molto stretta a quella di natura e di conseguenza a quella di umanità.
Questo rapporto è spesso ambiguo, in quanto il cibo, lungo tutto il percorso che lo porta alla bocca, è frutto di rappresentazioni e processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la reinterpretazione della natura.
Il cibo appartiene dunque alla cultura che l’uomo stesso si costruisce e gestisce.
Per esempio, la contrapposizione tra carni arrosto e bollite va al di là della semplice modalità di cottura degli alimenti. L’arrosto e il bollito hanno valenze simboliche profondamente differenti: l’opposizione tra cultura e natura, tra domestico e selvatico.
L’arrosto sta decisamente dalla parte della natura e può essere raffigurato come il frutto di battute di caccia. Il gusto forte della carne arrostita, un’ovvietà per persone che nella natura cercavano fonti di sostentamento. Il bollito, invece, media nell’acqua il rapporto fuoco-cibo, assume un aspetto più culturale, assume il significato simbolico di cosa domestica. In questo esempio di opposizione arrosto/bollito si consumano contrapposizioni storiche e culturali che richiamano stili di vita differenti e addirittura elementi di identità nazionali.
Il cow boy, per anni è stato associato all’idea geograficamente ben definita di Far West, a un ideale di società americana che ammira la cucina europea anche se non si esime dal ritenerla un po’ sofisticata.
“Noi siamo ciò che mangiamo”, sosteneva il filosofo L. Feuerbach, e non solo. Noi siamo ciò che mangiamo e come lo mangiamo.
La struttura del gusto, fortemente correlata, almeno in tempi più recenti, con la scienza dietetica e con la filosofia e la visione del mondo, si è totalmente modificata nel corso dell’ultimo secolo. Se è vero che i comportamenti alimentari sono la conseguenza di un processo di scelta, la struttura del gusto si modifica nel tempo in quanto frutto di modelli culturali.
Negli ultimi decenni, la commistione di questi modelli, ha generato fenomeni come la “Mcdonaldizzazione” delle abitudini alimentari, cosi pure come lo sviluppo contrapposto, della moda dei ristoranti etnici.
Potremmo individuare, in tutto questo, almeno quattro filoni culturali: genuinità, etnicità, fast food e biologico vs biotech. Ma il cibo è molto altro ancora, un nuovo fenomeno mediatico: trasmissioni TV, canali tematici, riviste, siti internet, app, ecc..; il cibo è perfino uno status symbol.
Gli alimenti sono spesso insignificanti, poveri, ciò che significano è il contesto, i valori che veicolano: forza, vigore, ricchezza… prova ne è che il cibo sta modificando anche i nostri canoni estetici di riferimento e il caso della modella Kate Moss rappresenta perfettamente questo paradigma.
Il binomio modella=anoressia si è imposto sul mercato della moda proponendo uno stile nuovo e diverso rispetto al mito Anni ’60 della donna formosa: quello di una nuova donna senza i requisiti formali della femminilità.
Ma il cibo è ancora di più: arte, pittura, linguaggio, il modo più sociale per vivere insieme, un modo nuovo per fronteggiare la crisi attraverso un ritorno ai mestieri più tradizionali, alla natura nella sua accezione più ampia e all’agricoltura in particolare.
Il fenomeno dei cosiddetti “contadini digitali” sta dando spazio ad una piccola-grande rivoluzione al contrario: dal computer alla vanga, passando attraverso la riscoperta della cultura dell’orto sempre più fatto in casa a misura di uomo.
Corsi e ricorsi storici verrebbe da dire: ma se fosse proprio la riscoperta del cibo in tutte le sue molteplici accezioni il vero elemento anticiclico per eccellenza?
*Former Partner Odgers Berndtson
Boardroom Talk, cibo, convivialità, cultura del cibo, Floriana Capitani, Odgers Berndtson
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