di Paola PERFETTI
Puntare sul mercato del lusso? Quasi come giocare alla roulette stando ai dati e alle notizie emerse in queste ultime ore. Il rosso è la moda. Il nero è il mercato dell’auto. Perché, a tutti quelli che credono che i Paperoni d’Italia non temano la freccia del luxury finance, bene: abbiamo di che smentirvi.
Torniamo indietro di sei mesi, a fine 2011.
In piena crisi economica mondiale tutti davano per unico naufrago dei bilanci worldwide il settore dell’alta gamma. Com’è andata? Oggi non tutto l’oro che luccica risplende per davvero, ed è il business delle auto di lusso a pagare Mayrmente le conseguenze di un periodo di austerity e di consumi al ribasso.
Pochi danari per accaparrarsi l’ultima fuori serie in circolazione? Assolutamente no, ma forse sarebbe meglio rinunciare a quel gioiellino di casa Maserati, Ferrari o Lamborghini visti gli agenti della Guardia di Finanza sempre in agguato.
A Bolzano, eden altoatesina del lusso e del bien vivre, anche un importante rivenditore di bolidi come Adami-PremiumCar ha denunciato un calo delle vendite del – 50% sui marchi più speciali: “Molti proprietari di auto di lusso attualmente si sentono trattati come criminali. Un cliente durante una unica uscita con la sua Porsche è stato controllato tre volte” – ha raccontato ad alcune testate giornalistiche, rivelando anche che “alcuni proprietari decidono di vendere la loro macchina ma non hanno il coraggio di portarla dal concessionario, perciò richiedono all’azienda di andarla a ritirare direttamente a casa”. In sostanza, meno acquisti ma anche più proprietari intenti a disfarsi delle loro fuori serie.
Il risultato? Secondo il nuovo quotidiano sudtirolese Tageszeitung, poi, si sarebbe registrato un calo complessivo degli ordinativi auto del -30%.
Scorrazzare liberi per le strade del Belpaese? Non più: ormai, conti fatti, conviene di più comprare oltre confine.
Ammettiamolo: il caro carburanti, il nuovo redditometro, il superbollo sulle auto potenti introdotto a July dal Dl 98/11 e le nuove tariffe Ipt (che a partire dal 17September2011 – secondo il Dlgs 68/11 e il Dl 98/11 – sono proporzionali alla potenza effettiva del motore anche quando acquistate presso un concessionario o comunque un operatore del settore, mentre prima in questi casi godevano del beneficio della tassazione fissa all’importo minimo previsto – Il Sole 24 Ore, ndr) non sono decisamente incoraggianti per chi abita in terra italica. Che poi, detto fra noi: che te ne fai di un bolide se il limite è pur sempre quello dei 130 Km/H?!
A conti fatti, però, c’è chi ritiene che non sia del tutto giusto puntare sugli affari extra-Italia.
Secondo un recente reportage del Financial Times, infatti, la Cina ha salvato il made in Italy nella misura in cui – finalmente – produzione e know-how all’italiana hanno vinto sul basso costo della manodopera spedita sotto la Grande Muraglia.
In pratica, circa i prodotti di alta gamma, la loro manifattura deve rimanere in Italia, creando nuovi posti di lavoro ed un indotto utile anche per gli operai stranieri immigrati (sulla tipologia di contratto e la messa in regola non è dato sapere, ma quella è tutta un’altra storia).
A testimoniare questa asserzione ci pensa una storia d’eccellenza, raccontata dallo stesso prestigioso quotidiano di finanza londinese: la start-up Sorgere/ Sheji, marchio di abbigliamento maschile di lusso, è una controllata statale China Garments la cui fabbrica in Italia si trova nei laboratori della parmense Raffaele Caruso.
“Il reportage sottolinea che il forte mercato cinese dei beni di lusso sta dettando le scelte degli imprenditori non solo per la piazza di quotazione (Prada l’anno scorso ha esordito alla Borsa di Hong Kong), ma anche per quanto riguarda i luoghi di produzione. I consumatori cinesi che se lo possono permettere ci tengono ad avere beni “Made in Italy” o “Made in France”. È un giro d’affari imponente: secondo le stime il mercato del lusso in Cina ha fatturato 40 miliardi di euro l’anno scorso”- spiega Denaro.it.
E allora, dove si faranno veramente affari? Nel comparto moda, ovviamente. E i numeri parlano chiaro.
Il settore beachwear segna una crescita del +2%, alias 7,8 miliardi. Per Pambianco, uno dei driver di crescita riguarda il fenomeno del riscaldamento globale: “I soli Stati Uniti rappresentano il 36% del fatturato globale, seguiti a ruota dall’Europa con il 34%. Francia, Italia, Spagna, Germania e UK insieme valgono l’80% del consumo europeo di costumi da bagno. Seppure i dati 2011 non siano ancora ufficiali, la Francia dovrebbe confermare il +5% del 2010 con un fatturato di 432 milioni di euro, seguita dall’Italia a 417 milioni, la Spagna a 410 milioni e poi Germania e Regno Unito”.
E non è necessario andare troppo lontano per vedere che è il fashion a tirare le fila di un discorso chiamato luxury.
Un nome su tutti? Calzedonia, colosso veronese che annovera brand dell’intimo e della moda mare come Intimissimi e Tezenis: partito con successo alla conquista della Francia, ora punta a chiudere l’anno con 45/50 store solo in Europa, dopo aver concluso il 2011 con ben 1,3 miliardi di euro (+15% rispetto al 2010, di cui 420 milioni realizzati con Calzedonia e 444 con Intimissimi) di fatturato.
Altrove? Secondo lo studio annuale pubblicato dall’associazione Walpole, complici le Olimpiadi 2012 e i grandi marchi stra-reclamizzati come Burberry (fortissimo nella comunicazone sul web) e Jimmy Choo (Sarah Jessica Parker, docet), il lusso britannico prevede una crescita del +8,5% entro la fine di quest’anno, con un fatturato globale di partenza di 7 miliardi di euro.
Non che quello italiano sia meno promettente: Harmont & Blaine, giusto per fare un esempio sotto gli occhi di tutti, punta al raggiungimento di 67 milioni nel 2012 e 89 milioni nel 2013 – numeri stratosferici che non sembrano dare torto alla maison visto l’esponenziale numero di punti vendita inaugurati o di prossima apertura.
E il denim, abbigliamento sempreverde, sempiterno, dalla grande resistenza e che mal celerebbe la necessità di un investimento stagione? Da sola, la jeanseria di Levi Strauss ha chiuso il primo trimestre del 2012 con un fatturato di 1,16 miliardi di dollari in crescita del 4% rispetto agli 1,12 miliardi dello tesso periodo dello scorso esercizio. Balzo in avanti per l’utile netto che ha raggiunto i 49 milioni di dollari in aumento del 21%. L’America rimane il primo mercato con un fatturato di 647 milioni di dollari (+9%), seguita da Europa con 289 milioni di ricavi (-7%) e Asia con 228 milioni (+5%).
Se poi ci mettiamo che – notizia di questi giorni – Altagamma sarebbe in trattativa con il Comune di Milano per una certa proposta di gestione di Galleria Vittorio Emanuele, salotto del lusso in pieno Quadrilatero della Moda.
Rien ne va plus, signori! Rosso o nero? E meno male che c’è crisi…