di Floriana CAPITANI
In un periodo storico in cui, tutto piu o meno ha un sound “slow”, perché lo “slow dress” tanto osannato dai Brands, piccoli o grandi che siano, non riesce ad avere ancora una precisa indentità?
Stime USA confermano come solo l’1% dei 3.000 MLD/$ mossi ogni anno dall’industria tessile, sia rappresentata da “vestiti etici”.
Possiamo scegliere cosa mangiare, dove andare, comprare equo e solidale, ma come sapere cosa indossiamo?
L’abito etico rappresenta la classica mission impossible; ricostruire l’intera filiera produttiva tra appalti diretti e subfornitori, aziende localizzate in giro per il mondo, è praticamente proibitivo.
Eppure, come non avere almeno il dubbio che dietro quell’etichetta ci siano bambini sfruttati, condizioni di vita inumane come è accaduto recentemente in Blangadesh dove sono morte circa 1.124 persone nel rogo di una fabbrica di otto piani, tanto da convincere la pur blasonata Disney ad abbandonare il paese?
Molti sostengono l’incertificabilità delle produzioni sia per l’internazionalizzazione delle fasi più labour intensive delle lavorazioni sia perché per diventare finito un prodotto deve passare spesso attraverso più nazioni.
Una catena di abbigliamento può avere dai 400 agli 800 fornitori. Per una camicia acquistata a Milano, il fornitore a cui si è rivolto il committente può trovarsi in Malesia, il cotone può arrivare dal Pakistan, i bottoni dalla Cina, colletto e polsini dal Giappone: Assemblato tutto in un’unica fabbrica, il prodotto inizia il suo viaggio tra agenti, compratori e grossisti fino al negozio.
Eppure esiste un vademecum per le aziende che vogliono essere “buone”, stilato appositamente dalla Clean Clothes Company, alleanza internazionale tra sindacati.
In Italia, la “Campagna Abiti Puliti” deve seguire almeno quattro regole di base, come stabilito nel 2011 dalla guida ONU “On business and Human Rights”, che prevede:
a)La mappatura dell’intera filiera produttiva
b)La pubblicazione delle liste dei fornitori per favorire la tracciabilità dei prodotti
c)Il pagamento di prezzi adeguati ai fornitori
d)La promozione della libertà di associazione sindacale.
In un contesto in cui molte aziende si impegnano solo nei confronti di appalti diretti, mentre nulla fanno sui subfornitori, esistono esempi virtuosi molto importanti come H&M, Mango, Zara, Nike, Gucci, etc.. solo per citarne alcuni.
In tale consesso di virtuosi, una menzione a parte merita il progetto “Made in no” (www.made-in-no.com/), una piccola filiera etica made in Italy e al 100% sostenibile, che costruisce e sperimenta, con forza lavoro italiana, nuove formule cooperative con i produttori brasiliani del cotone.
Negli ultimi due anni sono molti i marchi etici apparsi sul mercato, a partire da M. Ferrera che ha lanciato la sua collezione “ri-chic couture”, Stella Mc Carthy (vegana convinta) con i suoi materiali completamente naturali, Coop che dopo “Fashion freedom” sta lanciando “Vesto come penso”, collezione creata dalla stilista inglese K. Hamment, etc…
Capi etici e solidali, nuovi o di riciclo, disegnati nelle carceri o nelle maison, stanno ridisegnando il mondo del fashion, per distinguersi certo, ma essere, una volta tanto, anche in pace con il mondo.
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