di Davide PASSONI
C’è un luogo, a Milano, che è a metà tra una boutique e una galleria d’arte. Un luogo in cui l’appassionato di vintage e di buon gusto trova l’introvabile e si sente coccolato da quando entra a quando esce. È L’Arabesque, cult store nato dalla passione e dall’intuizione di Chici Meroni, raffinata signora della Milano che vive di stile; una di quelle signore con le quali una chiacchierata è una scoperta costante, in bilico tra ricordi, grandi nomi e una voglia di guardare al futuro che non smette di stupire. Ecco perché Il Giornale del Lusso l’ha incontrata.
Chichi Meroni e la moda: un legame che inizia da bambina…
Sono nata nel mondo della moda, perché mia madre era indossatrice per la maison Rina Modelli che ha portato in Italia tutti i grandi stilisti francesi: Vionnet, Patou, Ricci, Chanel, Lelong, Schiaparelli, Balenciaga, Dior, Fath, Cardin, Ungaro, Saint Laurent, Balmain… per cui fin da piccola vedevo due volte all’anno le sfilate e sono stata con le mani nelle pezze, nei tessuti, in mezzo alle sarte, alle première, a guardare come si tagliavano, come si costruivano i vestiti, come si provavano, come si puntavano durante le prove… Insomma, vivendo in questo mondo in un’epoca in cui la moda era assolutamente straordinaria, femminile, raffinata, elegantissima e molto chic, dove non esisteva la volgarità… tutta quell’aria respirata mi è rimasta attaccata alla pelle. Poi, Saint Laurent ha realizzato a Parigi il mio abito da sposa e siamo diventati amici…
Una seconda pelle…
Si tratta di qualcosa che non mi sono più tolta di dosso, anche se forse avrei potuto, nel tempo, seguire una moda più facile, da strada come dicono in tanti, ma non ci sono mai riuscita: a me è rimasto addosso quello stile, uno stile di grande eleganza e di raffinatezza, dove si cerca di non abbandonare la femminilità della donna, la quale rimane sopra un piedistallo, rimane quella a cui si apre la portiera dell’auto. Per una questione di rispetto e di cavalleria: l’uomo è di fianco a una donna, ma rimane il suo cavaliere e la donna è una donna con tutti i numeri, una donna completa sia nel lavoro che nella vita di ogni giorno.
E il cult store L’Arabesque, come è nato?
L’Arabesque è nato perché ho voluto riproporre il top di quella raffinatezza di cui parlavo prima: per questo qui si trovano tutti abiti neri, che secondo me sono il punto estremo di una donna chic, quello che le dà un tocco di classe in più. Anche senza gioielli o accessori, un abito nero la rende raffinata. Dentro a L’Arabesque ho cercato di mettere abiti neri che avessero una storia, oltre ai libri, ai bijoux d’epoca e ai profumi. Mi ispirano gli abiti di Givenchy, di Balmain e di Dior che ho conservato nel tempo, cercando di dare loro una struttura che si adattasse al fisico delle donne di oggi, che sono cambiate nel corpo, nella biancheria e nello stile di vita. Abiti che hanno lo stesso pensiero, ma che si adattano ad una donna che vive in un modo un po’ diverso da cinquanta anni fa.
Sento un velo di nostalgia nelle sue parole…
Si è perso tanto di questo mondo e si fa molta fatica a riconquistarlo. Forse perché non ci sono più le donne, ma nemmeno gli uomini di cui parlo; e secondo me il fatto che non ci siano quegli uomini costringe le donne a non essere più le stesse. Se ci fosse ancora l’uomo con un certo spessore e con un certo modo di essere, la donna acquisterebbe spessore a sua volta; l’uomo cerca di conquistare la donna, ma anche la donna di conquistare l’uomo: sono due mondi che si intrecciano e si attraggono e, se una donna sale di livello, anche l’uomo lo fa, se scende uno scende anche l’altra.
Ci siamo un po’ adattati?
Adattati, seduti… Ormai è passato il concetto che “vestirsi per il tempo libero” è sinonimo di vestirsi male: per me è un concetto orrendo. Come dire che una donna entra in casa, si sfila le scarpe e si mette le ciabatte: no, una donna anche e non solo davanti al suo uomo deve essere perfetta sempre e lo stesso vale per un uomo. Non è una questione di ricchezza, povertà o altro, è questione di stile di vita.
Mentre una volta…
Una volta le donne erano perfette sempre: si cambiavano alla sera per andare a cena, anche se mangiavano in casa, andavano a teatro vestite bene mentre oggi le vedi alla Scala in jeans: perché? Presentarsi in modo perfetto è una forma di rispetto anche per chi sta sul palco a recitare, a fare il suo lavoro. Una volta lo smoking alla Scala c’era sempre, non solo alla prima; non è un fatto di “divisa”, è un fatto di mentalità. Il lusso è qualcosa che c’è quando non c’è più la necessità, ma andrebbe applicato prima nei confronti di se stessi; una donna sempre truccata, in ordine, ben pettinata è innanzitutto un modo di vivere, non di apparire.
Design e interior design, le altre sue grandi passioni…
Mi segue esattamente come quella per la moda. Ci sono persone che spendono tantissimo per vestirsi e poi hanno delle case orrende perché hanno speso tutto in abiti e c’è gente che ha bellissime case ma poi si veste come capita. Penso invece che sia necessario avere un equilibrio tra le due cose. Ho sempre amato il design perché è una passione che ho ereditato da mio padre. Ma è una passione per il disegno in sé, che sia di un abito, di un divano piuttosto che di un pezzo di arredo. Ho avuto uno studio di architettura d’interni per tantissimi anni, ho arredato tantissime case che ho amato molto, nonostante nel tempo anche l’arredo cambia. Ho conservato tantissimo di quelli che erano i pezzi di arredo delle case di mio padre, che ha lavorato con dei grandi architetti e aveva dei mobili molto belli degli anni ’50. Del resto, grazie a lui ho avuto a che fare con architetti importanti, i cui pezzi di arredo conservo ancora oggi in casa mia.
Nomi?
Parliamo di Buffa, Gio Ponti, Melandri, Ulrich… ho diverse cose, che magari la gente nel tempo ha eliminato perché non usavano più. Per fortuna io sono una persona che mette via tutto, mi affeziono, e oggi tante cose che si vedono all’Arabesque sono pezzi assolutamente rivalutati da gente che vent’anni fa li avrebbe semplicemente buttati via.
Chi è cliente de L’Arabesque?
Siccome L’Arabesque è un po’ un contenitore di tante cose; o meglio una Wunderkammer. Dalla porta entra tanto la signora che vuole il vestito, il profumo, i gioielli, i libri, quanto l’architetto che cerca i libri di design, l’uomo che vuole la cravatta vintage di Hermès… I clienti sono questi: appassionati di oggetti di nicchia che sanno che non troverebbero altrove: gioielli, lampade, libri… Il fatto che il negozio sia un’unica, grande vetrina, fa sì che chi entra sappia già un po’ quello che vuole, il resto lo scoprirà.
Clienti stranieri?
Molti, perché dicono che è un negozio particolare, dove si respira un’atmosfera originale, diversa da tutti gli altri negozi di Milano. Uno qui si sente anche un po’ all’estero…
Cult store: chi ha coniato il termine?
Cerchiamo di far si che ogni oggetto sia speciale, e di mostrare tutta la nostra ricerca, che si traduce anche nello studio del negozio; a partire agli altoparlanti, che sono degli anni ’60, ai lampadari di Venini che mi hanno accompagnata fin da bambina, quando erano nell’ufficio di mio padre.
L’appassionato di vintage è anche giovane?
Sì, molti giovani stilisti, architetti, designer apprezzano i libri che abbiamo; poi la moda uomo è giovane e particolare, segue il vintage della maglieria di una volta, che è capita di più da un uomo che s’interessa alla moda, piuttosto che dall’uomo che magari cerca capi più classici.
Chi è per lei IL maestro di moda e stile?
Per l’uomo non ce n’è. L’uomo non deve uscire da certi canoni. Per la donna devo tornare indietro nel tempo… mi rifarei a Dior e Givenchy, i due grandi. Oltre a Yves Saint Laurent quando ha lavorato per Dior, un genio assoluto che è durato nel tempo con cose straordinarie. Mi fermerei a quegli anni, ai grandi sarti di una volta.
E tra i designer?
Mollino, Zanuso, Ulrich, Gio Ponti sono tutti insuperabili…
Il personaggio più eccezionale che ha incontrato?
Personalmente ho conosciuto Yves Saint Laurent, sono stata a contatto con lui fin da quando da ragazza ho sfilato per la Rive Gauche a Milano, a quando mi provava il vestito da sposa. L’ho frequentato per tanti anni, l’ho adorato per la sua umanità, molto diverso dalle persone che ci sono oggi: era una persona e non un personaggio.
Lei è sempre a caccia del pezzo vintage. Quando ricerca lo fa con un obiettivo preciso o no?
Sono come un cane da caccia: se vado a caccia di pernici e trovo una lepre non me la faccio scappare. Se cerco una determinata cosa getto l’occhio dappertutto, non posso farmi sfuggire nulla. Difficilmente i posti in cui vado offrono una cosa sola, anzi, a volte c’è della brutta merce dalla quale però salta fuori quello che non ti aspetti. A me piace cercare e trovare così.
Ha avuto e ha tuttora una vita molto piena: rimpianti?
Guai se non ce ne fossero nella vita, significherebbe che una persona avrebbe avuto pochi stimoli. Fino a che si hanno dei rimpianti significa che si ha voglia di fare delle cose nuove e io ho voglia di farne sempre, ma il tempo per farle tutte non mi basta.
Quanto è legata a Milano?
Molto, anche se ho vissuto tanti anni in Argentina e sono stata capace di staccarmi velocemente da Milano e andare dall’alta parte del mondo a crescere i miei bambini. Certamente sono cose che è più facile fare da giovani: mano a mano che si va avanti con gli anni le radici vanno sempre più in profondità. Sono molto legata a Milano, ma nel fondo non sono legata a nessun luogo.
Un negozio come L’Arabesque avrebbe senso altrove o il suo habitat è qua?
Assolutamente sì, anche di più forse. Perché determinate cose nei posti giusti funzionano sempre e vengono sempre capite. Londra, Parigi, New York, Berlino… penso che avrebbe potenzialità ovunque.
Un pezzo qui dentro cui è più affezionata che ad altri?
Forse questi lampadari (indica il soffitto della boutique, ndr), perché hanno visto tante difficoltà del mio lavoro e momenti di grande respiro. Sono dei pezzi di Venini che seguono la mia famiglia dal 1940. Sono con noi da 70 anni, accesi, spenti, nei momenti migliori e in quelli difficili… hanno visto tante cose, avrebbero molto da raccontare.