Continua dalla scorsa settimana…
C’è possibilità di fare business con la moda in Sicilia?
Se i nostri paragoni di business sono quelli con tanti zeri assolutamente no, ma ho fatto anche delle scelte per questo e non me ne pento. Quel tipo di business è impensabile,tuttavia è uno scotto che pago ben volentieri in nome dell’arte.
Però la sua è un’azienda sana?
Certamente si, non mi posso assolutamente lamentare.
La crisi ha un po’ toccato tutti, dai grandi ai piccoli nomi…
Beh, la mia è un’azienda umana, a taglio e misura d’uomo. Sa, io credo che nella vita bisogna avere quello che è giusto. Non ho mai avuto ambizioni in merito a scalate di business, ho avuto solo l’ambizione di fare le cose belle e farle al momento giusto e per le persone giuste. Mi sono vocata alla bellezza è questo è stato il premio. Ho avuto premi diversi, ma non per questo meno soddisfacenti: ho vestito, ad esempio, le statue raffiguranti le due dee Demetra e Kore. Questo può accadere solo in Sicilia e vi assicuro che è una sensazione ben più straordinaria di vestire delle regine o delle principesse.
La sua azienda è fatta da siciliani?
No, non è una prerogativa assoluta. Due su tre delle mie assistenti, ad esempio, non sono siciliane da anni. A me piace lavorare con la gente curiosa come me, gente che ama affondare nelle cosa che fa. Quelli che restano sempre a galla perché non si vogliono bagnare i capelli a me non piacciono. L’esperienza deve essere a tutto tondo, bisogna avere il coraggio di buttarsi e affondare, non affogare.
Lei ama moltissimo il pizzo, ornamento della tradizione siciliana per eccellenza
Il pizzo per me è un linguaggio, è la scrittura, una parola detta, per cui vado a cercare ancora tra i corredi, a rintracciare le anziane ricamatrici. Non mi interessa il pizzo creato in fabbrica. Di recente ho fatto un esperienza straordinaria con delle donne di Mirabella Imbaccari in provincia di Caltanissetta; la più giovane aveva 70 anni e venivano a fare un corso con me. Esperienza strana per me, abituata a lavorare con i giovani. Ho offerto il mio know-how alle loro mani, alle loro esperienza, al loro cervello, al loro sapere e abbiamo provato a fare delle cose insieme: ho resettato la loro idea di filato fatta di ricami di corredo e ho ha dato loro in mano dei materiali inusuali come il rame e lo spago. Non ha idea della meraviglia che è venuta fuori. Le capacità in Sicilia ci sono, manca poi la visione di chi poi deve condurre le cose, e in questo mi sento un po’ condottiera, e lo dico con grande orgoglio. È una Sicilia che c’è. Non c’è, forse, la possibilità di fare business a tanti zeri, perché tutto questo patrimonio, fatto di tradizione tramandata di madre in figlia, ad un certo punto deve diventare una macchina da guerra manca la mentalità imprenditoriale, per cui tutto funziona nella logica delle famiglie. Anche se purtroppo questo immenso sapere tra massimo dieci anni scomparirà perché le giovani donne di oggi vogliono saperne sempre meno.
Non può trasformarsi in business?
Assolutamente no. A Ragusa Ibla, ad esempio, ci sono molte ricamatrici, noi andiamo lì, scegliamo i disegni insieme e poi la consegna avviene dopo 6 mesi di lavoro a mano. Capisce da sola che non è una cosa che può essere strumentalizzata per fare business. Ci sono ancora delle realtà di altissimo artigianato ma quello deve rimanere. Non ci può essere ricamo siciliano con il codice a barre.
Oltre che dal paesaggio, trae ispirazione dagli abiti della tradizione delle donne siciliane?
Certo. Non dagli abiti delle donne di famiglia aristocratica, che usavano farsi fare gli abiti negli atelier parigini, mai in Sicilia. Prendo ispirazione piuttosto dagli abiti delle donne del popolo fatti con tessuti poveri, da quei vestiti che ricordano quelli dei Malavoglia. Ad esempio, una tra le mie gonne più famose è una reinterpretazione delle gonne usate dalle donne per la vendemmia il cui tessuto si raccoglieva e ripiegava su se stessa. La visione popolare e verista si sposa bene con la mia moda.
Pinella PETRONIO